La storia di Modica

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11 Gennaio 1693: il terremoto

Modica, così come Ragusa e Scicli, è stata dichiarata nel 2001 dall’UNESCO, Patrimonio dell’Umanità e inserita nella World Heritage List perché emblematica di una realtà storico-architettonica complessa che riguarda la ricostruzione di tutte le città del Val di Noto dopo il terremoto del 1693. Nei giorni 9 e 11 gennaio del 1693 due scosse sismiche di grande violenza distruggono la maggior parte delle città e dei borghi della Sicilia sud-orientale, le vittime sono ufficialmente 53.757, 58 sono gli insediamenti toccati dalla catastrofe di cui venti interamente distrutti.

Modica, Ragusa e Scicli sono tre città che hanno molto in comune per la collocazione orografica nel territorio degli Iblei e per la storia politico-amministrativa dal momento che, tutte, facevano parte della Contea di Modica e che costituiscono, oggi, la spina dorsale del versante orientale della provincia di Ragusa.

Il sisma del 1693 è un evento di cesura e/o fa da cerniera con il passato per tutte le città della provincia iblea in cui le elite furono costrette a prendere delle decisioni importanti per le popolazioni di ogni singolo nucleo urbano. La domanda che si posero le comunità colpite dal terremoto fu se restare o abbandonare i luoghi terremotati: Modica rimase. In città si contarono 3.400 morti. La ricostruzione non avvenne su una tabula rasa ma sulla base di quanto era rimasto in piedi e sulla possibilità del restauro delle architetture lesionate o crollate solo in parte, quantomeno nella prima fase tra la fine del Seicento e il primo decennio del Settecento. È durante il Settecento che si consolida la decisione di nuovi progetti ambiziosi pensati per città che avevano avuto una notevole espansione economica tra Cinquecento e Seicento e una contestuale espansione edilizia.

Modica divenne il sito ideale dove attuare un vero e proprio esperimento scenografico, un piano urbanistico ai limite del fantastico, un progetto che prenderà forma pietrificandosi in scene di tenero calcare color del miele, il miele degli alveari iblei cari a Virgilio che canta la dolcezza di questo prodotto nella V Ecloga.

"Bionde sono le nostre pietre e consolano il viaggiatore che ha ancora negli occhi il grigio della sciara"

La Contea di Modica fu protagonista, dalla seconda metà del Cinquecento e lungo tutto il secolo successivo, di una vera a propria rivoluzione agraria tramite l’enfiteusi, un affitto delle terre da parte dei Conti di Modica che, nel tempo, si trasformò in piccola e media proprietà di medi e piccoli proprietari determinando, in tal modo, la frantumazione del latifondo e un ancoraggio capillare dei contadini alla terra. Testimonianza di tale suddivisione sono, ad oggi, i muretti a secco che determinavano i confini tra una proprietà e l’altra, una vera e propria arte di capimastri e scalpellini locali che non ha nulla da invidiare ai contemporanei esempi di land art, quasi dei pettini di pietra bianca conficcati nella grigia terra, un merletto adagiato sui campi verdi in primavera e sulle spighe d’oro d’estate.

Modica si presenta oggi allo spettatore che vi giunge dall’alto, placida e adagiata lungo i fianchi di quattro colline caratterizzate da sbalze scoscese e da terrazze, rannicchiata in fondo alla valle dove, prima che venissero coperti a causa delle frequenti e disastrose alluvioni, scorrevano il Fiume Mothicano o Fiumara e i suoi due affluenti il Pozzo dei Pruni e lo Ianni Mauro. Le case a grappoli, i tetti che giocano a domino, la luce, fondamentale chiave di lettura di queste città risorte, ridisegna spazi pieni di storia, esalta il patrimonio architettonico e traccia quelle linee d’ombra che assumono, di volta in volta, valenze magiche, misteriose, occulte o ristoratrici. Modica è la summa del contrasto: l’alto e il basso, il sacro e profano, la luce e il lutto, civiltà medievale e civiltà barocca che si saldano coniugando irregolarità e simmetria, monumento e borgo popolare. Chastel, riferendosi all’architettura parla di “modulazioni, efflorescenze del movimento stesso del suolo”.

Dal 1600 in poi molti cronisti e scrittori hanno dedicato delle pagine alla descrizione della città o alla ricostruzione della sua storia riprendendo spesso le stesse notizie molte della quali mitologiche che attribuiscono la fondazione della città a Ercole. Leggende di questo tipo fanno parte del patrimonio culturale e della tradizione di moltissime, se non di tutte, le città che possono vantare una storia che si perde nei secoli.

Se, come disse Borges "Scrivere è riscrivere" e tutti i libri sono il risultato di quello che è già stato scritto e se delle città potessero dirsi le stesse cose dette dei libri, Modica rappresenta il risultato di ciò che, nei secoli, è avvenuto non solo in Sicilia ma in ogni città del mondo.

Una delle più suggestive descrizioni che non manca in nessuno dei testi dedicati a Modica è quella di Gesualdo Bufalino che in “Argo il cieco” così ne parla: "In figura di melagrana spaccata; vicina al mare ma campagnola, metà ristretta su uno sperone di roccia, metà sparpagliata ai suoi piedi con tante scale tra le metà a fare da pacieri e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come staffette dei cavalieri del Re…".

L’abate Paolo Balsamo nel 1808, intraprendendo un Viaggio in tutta la Sicilia per compiere un’ispezione amministrativa nella Contea di Modica scriveva nel “Giornale del Viaggio fatto in Sicilia” (un’opera che si inquadra nel filone dei “Giornali di Viaggio” iniziato con Montaigne, proseguito nel Settecento con moltissimi viaggiatori tra i quali possiamo ricordare: Wolfgang Goethe e Vittorio Alfieri, Brydon e Dumas, Maupassant e Anna de Noailles tutti alla ricerca di un mondo a parte, lontano da tutte le rotte degli uomini, chiuso nella sua fastosa insularità, una finestra su un universo esotico che aveva "sapore di Asia e Africa", un modo per sentirsi come Ulisse e i compagni) e descrive così la città: "Le strade sono tutte scabre et alpestri, all’eccezione delle principali che costeggiano due borri, i quali attraversano la città e danno l’idea delle vie della famosa Venezia".

Ma non si dimentichino altri non meno noti amanti del Grand Tour: l’irlandese Colt Hoare, il francese Deodat Dolomieu (lo scienziato che, diede il nome alle Dolomiti) e viaggiatori contemporanei come lo scrittore Matteo Collura, Andrea Camilleri, il romanziere francese Dominique Fernandez, Leonardo Sciascia, Anthony Blunt, uno dei massimi esperti del barocco internazionale.

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