Il nome di Modica, fatte poche e frammentarie eccezioni, è sconosciuto alle fonti greche classiche e ai frammenti letterari degli antichi topografi siciliani. I primi ricordi storici risalgono all’epoca romana. Silio Italico, dovendo fare l’elenco delle città ribelli a Roma dopo l’eccidio di Siracusa (212 a.C.), svela il nome di Modica in un verso “Et Netum et Muthyce pubesque liquentis Achatis”.
Cicereone è il primo a fornirci la prima pagina documentata della storia antica della città nel processo, in difesa dei Siciliani, contro Verre, il cattivissimo governatore passato alla storia per le sue malversazioni. Secondo la sua autorevole testimonianza, Mothyce, nell’anno 73 a.C. era uno di quei 34 comuni della Sicilia cui era imposto ogni anno l’obbligo di fornire a Roma la decima parte dei prodotti agricoli e contava, all’epoca, 187 aratores.
Dopo il processo a Verre, per molti secoli, si perde della città qualsiasi traccia, Plinio e Tolomeo sono gli unici scrittori del periodo romano cesareo che ne ricordano il nome. Da Plinio il Vecchio si apprende che Mothyca, in epoca imperiale, era una città stipendiaria, soggetta come la vicina Hybla (Ragusa Inferiore e Ragusa Antica) al pagamento di un tributo stabile. Da Tolomeo si ha invece la prima notizia della posizione astronomica del distretto e della foce del torrente.
Ci si chiede, tuttavia, fin dove possiamo tornare indietro nel tempo per ricostruire la storia della città di Modica e quali sono le testimonianze anteriori all’età romana.
Modica, così come gli altri centri degli Iblei, gravitava nell’area della civiltà dei Siculi. Ad usare il temine Siculi (Sikeloi) furono gli stessi Greci che, quando arrivarono per la prima volta sulle coste siciliane nel 740 a.C. circa, nella prima ondata della colonizzazione, trovarono l’isola abitata da tre popoli: i Siculi nell’area orientale, i Sicani in quella centro-occidentale e gli Elimi in quella occidentale.
Il quadro più completo della situazione viene fornito da Tucidide (V sec. a.C.) che, nel VI libro della Storia della Guerra del Peloponneso, ricostruisce la successione dei popoli che occupavano la Sicilia al tempo della prima ondata di coloni provenienti dalla penisola Greca. Delle popolazioni Sicule parla anche Dionigi di Alicarnasso alla fine del I sec. a.C. nella sua Archeologia Romana e, contemporaneamente, lo storico Diodoro Siculo, nativo di Agira, nella sua opera intitolata la Bibilioteca.
I problemi connessi all’interpretazione di queste notizie sono molteplici e riguardano, innanzitutto, le fonti a cui attinsero gli storici greci e le manipolazioni a cui le notizie stesse furono soggette per giustificare e favorire interressi ben precisi. Molti dati di fatto sembrano, ad oggi, assodati e tra questi la collocazione geografica dei Siculi che occupavano la parte orientale dell’isola. Inoltre l’indagine archeologica ha confermato questa situazione.
Il popolamento del territorio modicano è da far risalire all’eneolitico (3200-2200 a.C.) A meno di 15 Km da dove sorse, in seguito, l’attuale città di Modica, i Siculi del periodo Eneolitico (3200 a.C.) estraevano, senza il sussidio di strumenti metallici, la SELCE necessaria a foggiare coltelli, cuspidi, arnesi dalla miniera di Monte Tabuto, una delle più antiche in Sicilia. L’eneolitico e il periodo seguente (Età del Bronzo Antica) ci sono noti quasi esclusivamente per i reperti rinvenuti e per la presenza di numerose necropoli.
Se vi è un territorio in Sicilia davvero ricco di necropoli è indubbiamente il modicano. La presenza di questa tipologia funeraria, riutilizzata nel corso dei secoli anche tramite riadattamenti, conferisce a questi luoghi l’aspetto di veri e propri alveari di pietra lungo i fianchi della alture. Tuttavia, nonostante la presenza di una importante civiltà come quella dei Siculi, le testimonianze archeologiche relative alla città di Modica sono frammentarie e discontinue dal momento che, l’insistenza dell’attuale abitato su quello antico e i continui interventi di manomissione e riadattamenti dell’edilizia, hanno reso difficoltoso il ritrovamento nonché la conservazione degli avanzi più antichi.
Le evidenze archeologiche più antiche sono da riferire all’Antica età del Bronzo (2200-1400 a.C., un’epoca contraddistinta dalla facies di Castelluccio) e si tratta di necropoli documentate soprattutto nella vallata del Torrente Pozzo dei Pruni, nel versante occidentale. (La cultura di Castelluccio deriva il suo nome da un insediamento nei pressi di Noto scoperto dall’archeologo Paolo Orsi. Tra gli elementi distintivi di Castelluccio vi sono un particolare tipo di tomba, scavato nella roccia e denominato a grotticella artificiale e l’uso di vasi di ceramica, plasmati a mano, verniciati di rosso e dipinti con motivi geometrici color nero o bruno). Attualmente il gruppo più cospicuo di tombe, superstite alle cave di pietra e ai moderni edifici, si trova nella zona del Quartiriccio: se ne contano circa una trentina, presentano una pianta ovale o circolare, a volte sono precedute da una anticella. Altre tombe apparentemente più isolate, perché più intensa è stata l’attività edilizia, si trovano lungo la via Santa Venera e presso l’omonima chiesa rupestre, riadattata in età tardoromana con loculi scavati nel piano di deposizione.
Ad età preistorica sono da riferirsi altri reperti rinvenuti nella vallata presso la fontana di San Pancrazio. Nel 1878, nel corso di lavori stradali, furono recuperati numerosi manufatti soprattutto di industria litica: macine in pietra lavica, strumenti e schegge di ossidiana e selce. Si erano trovati anche molti frammenti fittili, ora dispersi, che presentavano una decorazione a segni neri geometrici su fondo rosso, un tipo inquadrabile all’interno della cultura materiale del periodo castellucciano.
Un altro insediamento di età preistorica è documentato all’altro capo della città, nell’altura di Monserrato dove, nella scarpata sottostante, furono ritrovate delle tombe a forno in molti casi ampliate e riutilizzate dall’insediamento trogloditico medievale.
Al periodo compreso tra la tarda età del bronzo e l’età del ferro (1200-1100 a.C.) si può assegnare la necropoli di Contrada Mista nel versante orientale della vallata del Pozzo dei Pruni. La situazione era già compromessa all’inizio del XX secolo a causa delle estrazioni in una cava di pietra e la situazione peggiorò di pari passo con l’espansione edilizia comportando la distruzione di circa trenta del centinaio di tombe a grotticella artificiale. Se, inizialmente, le tombe furono assegnate al primo periodo siculo, corrispondente al castellucciano, di fatto, alla luce di più approfondite ricerche, presentano caratteri che riportano a una età successiva: si trovano infatti tombe a pianta ellittica con ingresso trapezoidale “monumentalizzato” da una triplice cornice e tombe con pianta quadrangolare con soffitto piano e con la banchina laterale preceduta da un vestibolo.
Sul lato di ponente nel 1925 vennero rinvenute due tombe molto ricche, i corredi consistono infatti di più di trenta vasi e monili in bronzo e in ferro, vasellame di vario tipo con decorazioni di tipo geometrico, incise o dipinte.
Per l’età classica (VI-V sec. a.C.) non si possiedono ancora molte testimonianze fatta eccezione per quelle di contrada ORETO (O’RITU) nella CHORA settentrionale (la chora è il territorio che circonda il centro abitato). Le testimonianze si infittiscono durante il periodo ellenistico (III sec. a.C.) sia nel territorio che nel centro urbano. Un importante ritrovamento fu quello del 1914, durante i lavori nell’alveo del torrente Ianni Mauro, di una statua equestre in bronzo. La statua fu datata dall’archeologo Paolo Orsi all’età ellenistico romana. Recentemente, lungo i fianchi dello sperone del Castello sono stare scoperte e illustrate delle necropoli ipogeiche di fondamentale importanza per la definizione delle topografia antica di Modica
Nel versante orientale si ha la maggiore concentrazione dei sepolcri distribuiti all’esterno dell’abitato e lungo il percorso che dalla rocca scende verso il fondovalle. Il nucleo più cospicuo è dato da tre ampi ipogei ubicati sotto il grande muro del giardino settentrionale del Castello e tracce di un piccolo ipogeo restano, a un livello inferiore, tutti purtroppo devastati sia da crolli che dalla utilizzazione come cave per l’estrazione delle pietre. Al loro interno, tuttavia, è ancora possibile distinguere una varia tipologia sepolcrale con loculi a pila, arcosoli monosomi, polisomi e baldacchini.
Minori sono i resti della necropoli del versante occidentale dello sperone del Castello; il resto è stato tutto devastato dall’insediamento rupestre e lo sbancamento per l’apertura della porta di Oriente del Castello, nella prima metà del XII secolo, ha comportato l’attuale isolamento in posizione elevata nella parete di roccia.
Nelle zone immediatamente limitrofe all’attuale centro urbano, in età romana vi fu una notevole occupazione dell’agro modicano con borgate e villaggi che si conoscono soltanto sulla base delle necropoli relative, in genere ipogei o tombe a fossa.
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